Stefania Baldassari

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Le novità sul divorzio breve

Dopo oltre 40 anni, il 22 aprile la Camera dei Deputati, con un forte consenso che ha registrato 398 sì, 28 no e 6 astenuti, ha approvato in via definitiva la riforma della legge sul divorzio con l’introduzione della normativa sul divorzio breve.

I tre articoli che compongono il nuovo testo normativo apportano importanti modifiche alla L. n. 898/1970, mediante l’introduzione di nuovi tempi tecnici richiesti per maturare il diritto alla domanda divorzile.

Così i tre anni  per richiedere il divorzio vengono sensibilmente accorciati a dodici mesi, in caso di separazione giudiziale, e a sei mesi, in caso di separazione consensuale.

Non solo. La separazione produce i suoi effetti ex nunc dalla prima comparizione dei coniugi avanti al Presidente del Tribunale e quindi non bisogna più attendere il provvedimento di omologa della separazione stessa.

Particolarmente importante il momento dello scioglimento della comunione dei beni tra i coniugi:mentre prima si realizzava dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione , ora, si produce dal momento in cui il presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati.

Tali disposizione trovano immediata applicazione e possono pertanto essere estese anche ai procedimenti in corso.

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La fine della convivenza non riesuma il diritto all’assegno divorzile

Con sentenza n. 6855 del 3 aprile 2015 la Corte di Cassazione ha dissipato ogni dubbio circa l’obbligo di contribuire al mantenimento dell’ex coniuge che nel frattempo ha iniziato una nuova convivenza more uxorio.

La nascita di una nuova famiglia di fatto da parte del coniuge divorziato comporta  la perdita definitiva dell’assegno divorzile, anche nel caso di successiva rottura del nuovo legame.

Lo ha stabilito la Suprema Corte accogliendo il ricorso di un marito obbligato a versare mille euro al mese alla ex moglie che durante la procedura di separazione aveva iniziato una nuova stabile convivenza, che aveva portato alla nascita di due figli, ma che poi era cessata.

L’aspetto innovativo di questa pronuncia sta nella definitività della esclusione del diritto all’assegno a favore dell’ex coniuge, anche nel caso in cui si assista alla rottura della nuova convivenza.

Ed infatti partendo dalla considerazione che si ha una convivenza more uxorio quando la stessa  presenta i caratteri della stabilità e della continuità, ed  i conviventi elaborano un progetto di vita comune magari anche corredato dalla nascita di figli, il risultato che ne deriva si sostanzia in  un legame che presenta una stretta relazione con quello matrimoniale.

Pertanto il riferimento ai parametri dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale non può che venir meno in quanto assorbito nella nuova famiglia costituta.

Né vale il tentativo di giustificare il riesumato diritto all’assegno, una volta giunta a termine la nuova vita familiare, con una sorta di “quiescenza” del diritto medesimo, riproponibile ogniqualvolta la relazione si interrompa definitivamente (Cass. n. 17195/2011).

Una volta accertata l’esistenza di una vera e propria famiglia di fatto, nata da una libera e consapevole scelta eventualmente potenziata dalla nascita di figli, si dovrebbe coerentemente pretendere l’assunzione, da parte dei conviventi, “di un rischio, in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto, mettendosi in conto la possibilità di una cessazione del rapporto tra conviventi”.

Dunque, nel caso specifico, accertata la convivenza more uxorio, del resto coronata dalla nascita di due figli, la Cassazione ha ritenuto che la successiva cessazione della relazione, e del relativo apporto economico, «non potrebbe costituire titolo per ottenere l’assegno divorzile».

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La nascita indesiderata e il risarcimento del danno

Il caso affrontato dalla Suprema Corte affronta una questione molto controversa, relativa al danno da nascita indesiderata –ipotesi ricorrente quando a seguito del mancato accertamento di malformazioni congenite del feto, la madre perda la possibilità di ricorrere all’aborto- e al diritto del nascituro di proporre domanda di risarcimento del danno.

La spinosa questione è stata affrontata dalla Corte di Cassazione che con ordinanza interlocutoria del 18-23.09.2015 n. 3569 ha rimesso gli atti per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Nella fattispecie, i genitori in proprio e quali esercenti la potestà sulla figlia minore, convenivano in giudizio il primario di ostetricia e ginecologia e il direttore del laboratorio analisi dell’ospedale al quale la madre si era rivolta per effettuare esami diagnostici e successivamente il parto, nonchè l’Azienda U.S.L. per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti alla nascita della figlia affetta da sindrome di Down.

I genitori assumevano che la madre era stata avviata al parto senza che fossero stati disposti ulteriori approfondimenti successivi ad  esami che mostravano già  alcuni dubbi diagnostici.

La questione che verte sulla tematica del danno da nascita indesiderata si concentra su due rilevanti aspetti: l’uno relativo all’onere probatorio e l’altro sulla legittimazione del nato a chiedere tutela risarcitoria.

Il percorso giurisprudenziale seguito dalla Suprema Corte si concentra sull’esame dell’aspetto probatorio sia nella ricerca di un  nesso causale intercorrente fra l’inadempimento dei sanitari e il mancato ricorso all’aborto, sia sulla sussistenza delle condizioni necessarie per procedere all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno di gestazione: ipotesi questa plausibile solo in presenza di grave pericolo per la salute fisica e psichica della madre conseguente alla malformazioni del feto.

Richiamando precedenti pronunce giurisprudenziali (Cass. 16754/2012)  i giudici di legittimità hanno evidenziato che in mancanza di una preventiva ed esplicita dichiarazione della madre, che inequivocabilmente esprime la volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica del nascituro, la semplice richiesta di accertamento diagnostico cosituisce un “indizio isolato” che non può essere oggetto di generalizzazioni.

Nella costruzione logico giuridica eseguita dalla Cassazione si evidenzia l’importanza dell’onere probatorio –non  ritenendo sufficiente la semplice allegazione degli esami diagnostici-  posto a carico della parte lesa, alla quale viene chiesto di dimostrare la sua volontà di interrompere la gravidanza una volta informata delle malformazioni del concepito con ogni ulteriore e determinante allegazione probatoria.

L’altra questione riguarda la richiesta risarcitoria avanzata in nome e per conto della figlia per il fatto di essere nata con gravi malformazioni (sindrome di Down).

Dopo un primo esame della linea seguita dalla giurisprudenza succedutasi negli anni, ove si riteneva non ammissibile la richiesta risarcitoria in nome e per conto del nascituro in quanto “l’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, non essendo configurabile in capo al nascituro un diritto a non nascere o a non nascere se non sano”,  visto che “la tutela dell’individuo nella fase prenatale è limitata alle lesioni imputabili ai comportamenti colposi dei sanitari, ma non si estende alle situazioni diverse” (Cass. n. 14488/2004), la più recente linea seguita dalla corte di legittimità (v. Cass. n. 9700/2011)   ammette la possibilità della richiesta risarcitoria da parte del figlio nato, il quale “ per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)” e, conseguentemente, il nascituro “ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito” da parte del medico  con riguardo “al danno consistente nell’essere nato non sano” per tutelare “l’interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, a nulla rilevando che la sua patologia fosse congenita, né che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire”.

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Il figlio in tenera età può essere accudito anche dal padre

Non vi sono ormai più dubbi. Anche il padre ha lo stesso diritto della madre di accudire il figlio minore in tenera età, in quanto secondo il Tribunale di Milano (sez. IX decreto 14.01.2015) le competenze si acquisiscono e si accrescono solo con la pratica e dunque solo esercitando il ruolo genitoriale una figura matura e affina le proprie competenze.

Non solo.  Limitare i rapporti genitoriali in ragione dell’incapacità del genitore di accudire un figlio in  tenera età è conseguenza di un pregiudizio non avvalorato da alcun  riscontro oggettivo, che sottolinea una diversità nel rapporto genitoriale.

Per questo motivo la regolamentazione dei tempi e delle modalità da attuare nell’affidamento condiviso, prescindendo dal caso di figli nati in costanza di matrimonio o al di fuori di esso, deve essere strutturato in modo tale da garantire tempi di permanenza equamente suddivisi fra i genitori, in modo da consentire anche al padre di stabilire un consolidamento dei rapporti con il proprio figlio.

La fattispecie esamina il caso di due genitori di una bimba di due anni nata  a seguito di una relazione affettiva fra gli stessi intercorsa, ma  giunta al termine, in cui la madre si rivolgeva al Tribunale affinché, vista l’incomunicabilità con l’altro genitore, disponesse la regolamentazione giudiziale dei rapporti genitoriali.

Preliminarmente il Tribunale di Milano riteneva che anche nel caso della regolamentazione dell’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, che si svolge con il rito camerale di cui all’art. 737 e ss. c.p.c. ,  si debbano assumere provvedimenti provvisori e urgenti al pari di quanto previsto nel caso dei procedimenti di separazione e divorzio, al fine di rispondere “all’esigenza di approntare per il minore un assetto di vita tutelante e rispettoso dei suoi bisogni primari in vista di statuizioni definitive”.

Proprio la natura cautelare  di tali provvedimenti riconosciuta dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. 26.04.2013, n. 10064) evidenzia l’esigenza di evitare che la durata del processo si risolva in un pregiudizio per il minore.

Preso atto di ciò il Tribunale di Milano si pronunciava in ordine all’affidamento condiviso della minore, prevedendo il collocamento prevalente della stessa presso la madre, ma stabilendo tuttavia tempi di permanenza presso il padre adeguatamente strutturati in base alle esigenze della famiglia e all’interesse della minore, al fine di poter consentire alla stessa di trascorrere con il padre (genitore non collocatario) “dei tempi adeguati e segnatamente dei fine settimana interi, e tempi infrasettimanali, garantendo una certa continuità di vita in questi periodi”.

Nel ribadire l’importanza della lineare consequenzialità dei rapporti fra padre e figlia, il giudice ha soltanto puntualizzato che una sensibile limitazione a tale diritto può trovare giustificazione solo quando vi sia la dimostrazione che da tale perpetuarsi di rapporti con il genitore possa derivare una serio pregiudizio al minore: situazione, questa, non riscontrata nella fattispecie in esame.

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