Il caso affrontato dalla Suprema Corte affronta una questione molto controversa, relativa al danno da nascita indesiderata –ipotesi ricorrente quando a seguito del mancato accertamento di malformazioni congenite del feto, la madre perda la possibilità di ricorrere all’aborto- e al diritto del nascituro di proporre domanda di risarcimento del danno.
La spinosa questione è stata affrontata dalla Corte di Cassazione che con ordinanza interlocutoria del 18-23.09.2015 n. 3569 ha rimesso gli atti per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
Nella fattispecie, i genitori in proprio e quali esercenti la potestà sulla figlia minore, convenivano in giudizio il primario di ostetricia e ginecologia e il direttore del laboratorio analisi dell’ospedale al quale la madre si era rivolta per effettuare esami diagnostici e successivamente il parto, nonchè l’Azienda U.S.L. per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti alla nascita della figlia affetta da sindrome di Down.
I genitori assumevano che la madre era stata avviata al parto senza che fossero stati disposti ulteriori approfondimenti successivi ad esami che mostravano già alcuni dubbi diagnostici.
La questione che verte sulla tematica del danno da nascita indesiderata si concentra su due rilevanti aspetti: l’uno relativo all’onere probatorio e l’altro sulla legittimazione del nato a chiedere tutela risarcitoria.
Il percorso giurisprudenziale seguito dalla Suprema Corte si concentra sull’esame dell’aspetto probatorio sia nella ricerca di un nesso causale intercorrente fra l’inadempimento dei sanitari e il mancato ricorso all’aborto, sia sulla sussistenza delle condizioni necessarie per procedere all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno di gestazione: ipotesi questa plausibile solo in presenza di grave pericolo per la salute fisica e psichica della madre conseguente alla malformazioni del feto.
Richiamando precedenti pronunce giurisprudenziali (Cass. 16754/2012) i giudici di legittimità hanno evidenziato che in mancanza di una preventiva ed esplicita dichiarazione della madre, che inequivocabilmente esprime la volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica del nascituro, la semplice richiesta di accertamento diagnostico cosituisce un “indizio isolato” che non può essere oggetto di generalizzazioni.
Nella costruzione logico giuridica eseguita dalla Cassazione si evidenzia l’importanza dell’onere probatorio –non ritenendo sufficiente la semplice allegazione degli esami diagnostici- posto a carico della parte lesa, alla quale viene chiesto di dimostrare la sua volontà di interrompere la gravidanza una volta informata delle malformazioni del concepito con ogni ulteriore e determinante allegazione probatoria.
L’altra questione riguarda la richiesta risarcitoria avanzata in nome e per conto della figlia per il fatto di essere nata con gravi malformazioni (sindrome di Down).
Dopo un primo esame della linea seguita dalla giurisprudenza succedutasi negli anni, ove si riteneva non ammissibile la richiesta risarcitoria in nome e per conto del nascituro in quanto “l’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, non essendo configurabile in capo al nascituro un diritto a non nascere o a non nascere se non sano”, visto che “la tutela dell’individuo nella fase prenatale è limitata alle lesioni imputabili ai comportamenti colposi dei sanitari, ma non si estende alle situazioni diverse” (Cass. n. 14488/2004), la più recente linea seguita dalla corte di legittimità (v. Cass. n. 9700/2011) ammette la possibilità della richiesta risarcitoria da parte del figlio nato, il quale “ per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)” e, conseguentemente, il nascituro “ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito” da parte del medico con riguardo “al danno consistente nell’essere nato non sano” per tutelare “l’interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, a nulla rilevando che la sua patologia fosse congenita, né che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire”.
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