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Unioni civili e convivenze di fatto: punti essenziali

Domenica 5 giugno entrerà ufficialmente in vigore una delle leggi più attese degli ultimi anni con il nome della relatrice di Palazzo Madama , la senatrice Monica Cirinnà, contraddistinta con il numero 76/2016, che regolamenterà le unioni civili e le convivenze di fatto.

 Le unioni civili

L’unione fra persone dello stesso sesso, si costituisce attraverso una dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile in presenza di due testimoni.

La formalità sta nella redazione da parte dell’incaricato di un certificato che dovrà contenere i dati anagrafici delle parti, il regime patrimoniale scelto e la residenza comune.

Tale documento dovrà essere poi registrato nell’archivio di stato civile.

Un importante riconoscimento viene esteso alle parti dell’unione che  acquisiranno diritti, ma anche doveri in gran parte assimilabili a quelli dei coniugi, in caso di malattia, ricovero, detenzione o morte.

In quest’ultimo caso, infatti, al partner superstite viene riconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità, all’eredità nella stessa quota prevista per il coniuge, e alla liquidazione del TFR.

I partners hanno l’obbligo di assistenza morale e materiale, di coabitazione e collaborazione,  mentre viene escluso l’obbligo di fedeltà previsto per i coniugi.

Il regime patrimoniale sarà quello della comunione dei beni a meno che non si opti per la separazione.

Quando finisce l’amore sarà sufficiente rivolgersi all’ufficiale di stato civile per chiedere lo scioglimento dell’unione e poi il divorzio che si potrà ottenere in via giudiziale , con la negoziazione assistita o con un accordo avanti l’ufficiale di stato civile.

 

Le convivenze di fatto

Cambiano le regole anche per chi decide di convivere.

La legge Cirinnà prevede la possibilità per i conviventi  di regolare i  rapporti economici e patrimoniali con un contratto di convivenza, che dovrà essere redatto da un avvocato o da un notaio per iscritto nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata

Il professionista incaricato  non dovrà soltanto provvedere all’autentica delle firme delle parti, ma dovrà, in base alla propria esperienza e professionalità, essere di aiuto nella realizzazione dell’accordo.

L’avvocato, o il notaio, deve verificare che l’accordo sia lecito e conforme alle norme imperative e all’ordine pubblico e per questo è fondamentale l’intervento di un  professionista competente che segua fin dall’inizio, in tutte le fasi, le parti che intendono regolamentare formalmente il proprio accordo.

Il professionista è chiamato a farsi partecipe dei diversi intendimenti delle parti, dispensando consigli e dando tutte le informazioni necessarie per far sì che l’accordo così stipulato possa tutelare gli interessi di entrambi i partners in modo inequivocabile e imparziale.

Il ruolo dell’avvocato, così come del notaio è fondamentale anche in caso di risoluzione del contratto dal quale è possibile recedere unilateralmente mediante dichiarazione autenticata ricevuta dal professionista.


Le novità sul divorzio breve

Dopo oltre 40 anni, il 22 aprile la Camera dei Deputati, con un forte consenso che ha registrato 398 sì, 28 no e 6 astenuti, ha approvato in via definitiva la riforma della legge sul divorzio con l’introduzione della normativa sul divorzio breve.

I tre articoli che compongono il nuovo testo normativo apportano importanti modifiche alla L. n. 898/1970, mediante l’introduzione di nuovi tempi tecnici richiesti per maturare il diritto alla domanda divorzile.

Così i tre anni  per richiedere il divorzio vengono sensibilmente accorciati a dodici mesi, in caso di separazione giudiziale, e a sei mesi, in caso di separazione consensuale.

Non solo. La separazione produce i suoi effetti ex nunc dalla prima comparizione dei coniugi avanti al Presidente del Tribunale e quindi non bisogna più attendere il provvedimento di omologa della separazione stessa.

Particolarmente importante il momento dello scioglimento della comunione dei beni tra i coniugi:mentre prima si realizzava dopo il passaggio in giudicato della sentenza di separazione , ora, si produce dal momento in cui il presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati.

Tali disposizione trovano immediata applicazione e possono pertanto essere estese anche ai procedimenti in corso.

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La fine della convivenza non riesuma il diritto all’assegno divorzile

Con sentenza n. 6855 del 3 aprile 2015 la Corte di Cassazione ha dissipato ogni dubbio circa l’obbligo di contribuire al mantenimento dell’ex coniuge che nel frattempo ha iniziato una nuova convivenza more uxorio.

La nascita di una nuova famiglia di fatto da parte del coniuge divorziato comporta  la perdita definitiva dell’assegno divorzile, anche nel caso di successiva rottura del nuovo legame.

Lo ha stabilito la Suprema Corte accogliendo il ricorso di un marito obbligato a versare mille euro al mese alla ex moglie che durante la procedura di separazione aveva iniziato una nuova stabile convivenza, che aveva portato alla nascita di due figli, ma che poi era cessata.

L’aspetto innovativo di questa pronuncia sta nella definitività della esclusione del diritto all’assegno a favore dell’ex coniuge, anche nel caso in cui si assista alla rottura della nuova convivenza.

Ed infatti partendo dalla considerazione che si ha una convivenza more uxorio quando la stessa  presenta i caratteri della stabilità e della continuità, ed  i conviventi elaborano un progetto di vita comune magari anche corredato dalla nascita di figli, il risultato che ne deriva si sostanzia in  un legame che presenta una stretta relazione con quello matrimoniale.

Pertanto il riferimento ai parametri dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale non può che venir meno in quanto assorbito nella nuova famiglia costituta.

Né vale il tentativo di giustificare il riesumato diritto all’assegno, una volta giunta a termine la nuova vita familiare, con una sorta di “quiescenza” del diritto medesimo, riproponibile ogniqualvolta la relazione si interrompa definitivamente (Cass. n. 17195/2011).

Una volta accertata l’esistenza di una vera e propria famiglia di fatto, nata da una libera e consapevole scelta eventualmente potenziata dalla nascita di figli, si dovrebbe coerentemente pretendere l’assunzione, da parte dei conviventi, “di un rischio, in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto, mettendosi in conto la possibilità di una cessazione del rapporto tra conviventi”.

Dunque, nel caso specifico, accertata la convivenza more uxorio, del resto coronata dalla nascita di due figli, la Cassazione ha ritenuto che la successiva cessazione della relazione, e del relativo apporto economico, «non potrebbe costituire titolo per ottenere l’assegno divorzile».

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La nascita indesiderata e il risarcimento del danno

Il caso affrontato dalla Suprema Corte affronta una questione molto controversa, relativa al danno da nascita indesiderata –ipotesi ricorrente quando a seguito del mancato accertamento di malformazioni congenite del feto, la madre perda la possibilità di ricorrere all’aborto- e al diritto del nascituro di proporre domanda di risarcimento del danno.

La spinosa questione è stata affrontata dalla Corte di Cassazione che con ordinanza interlocutoria del 18-23.09.2015 n. 3569 ha rimesso gli atti per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Nella fattispecie, i genitori in proprio e quali esercenti la potestà sulla figlia minore, convenivano in giudizio il primario di ostetricia e ginecologia e il direttore del laboratorio analisi dell’ospedale al quale la madre si era rivolta per effettuare esami diagnostici e successivamente il parto, nonchè l’Azienda U.S.L. per ottenere il risarcimento dei danni conseguiti alla nascita della figlia affetta da sindrome di Down.

I genitori assumevano che la madre era stata avviata al parto senza che fossero stati disposti ulteriori approfondimenti successivi ad  esami che mostravano già  alcuni dubbi diagnostici.

La questione che verte sulla tematica del danno da nascita indesiderata si concentra su due rilevanti aspetti: l’uno relativo all’onere probatorio e l’altro sulla legittimazione del nato a chiedere tutela risarcitoria.

Il percorso giurisprudenziale seguito dalla Suprema Corte si concentra sull’esame dell’aspetto probatorio sia nella ricerca di un  nesso causale intercorrente fra l’inadempimento dei sanitari e il mancato ricorso all’aborto, sia sulla sussistenza delle condizioni necessarie per procedere all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno di gestazione: ipotesi questa plausibile solo in presenza di grave pericolo per la salute fisica e psichica della madre conseguente alla malformazioni del feto.

Richiamando precedenti pronunce giurisprudenziali (Cass. 16754/2012)  i giudici di legittimità hanno evidenziato che in mancanza di una preventiva ed esplicita dichiarazione della madre, che inequivocabilmente esprime la volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia genetica del nascituro, la semplice richiesta di accertamento diagnostico cosituisce un “indizio isolato” che non può essere oggetto di generalizzazioni.

Nella costruzione logico giuridica eseguita dalla Cassazione si evidenzia l’importanza dell’onere probatorio –non  ritenendo sufficiente la semplice allegazione degli esami diagnostici-  posto a carico della parte lesa, alla quale viene chiesto di dimostrare la sua volontà di interrompere la gravidanza una volta informata delle malformazioni del concepito con ogni ulteriore e determinante allegazione probatoria.

L’altra questione riguarda la richiesta risarcitoria avanzata in nome e per conto della figlia per il fatto di essere nata con gravi malformazioni (sindrome di Down).

Dopo un primo esame della linea seguita dalla giurisprudenza succedutasi negli anni, ove si riteneva non ammissibile la richiesta risarcitoria in nome e per conto del nascituro in quanto “l’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, non essendo configurabile in capo al nascituro un diritto a non nascere o a non nascere se non sano”,  visto che “la tutela dell’individuo nella fase prenatale è limitata alle lesioni imputabili ai comportamenti colposi dei sanitari, ma non si estende alle situazioni diverse” (Cass. n. 14488/2004), la più recente linea seguita dalla corte di legittimità (v. Cass. n. 9700/2011)   ammette la possibilità della richiesta risarcitoria da parte del figlio nato, il quale “ per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato)” e, conseguentemente, il nascituro “ancorché privo di soggettività giuridica fino al momento della nascita, una volta venuto ad esistenza, ha diritto ad essere risarcito” da parte del medico  con riguardo “al danno consistente nell’essere nato non sano” per tutelare “l’interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, a nulla rilevando che la sua patologia fosse congenita, né che la madre, ove fosse stata informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire”.

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